Il cibo assume un significato di rilievo per la vita sociale e di relazione di ogni individuo.
Vi sono molti rituali legati al cibo, come quelli festivi, tradizionali, amicali o familiari, spesso investiti da una forte emotività. Basti pensare al momento del pasto in famiglia, che spesso diventa un modo per comunicare avvenimenti decisivi della giornata o l’ambito in cui, talvolta, si palesano in una forte tensione emotiva possibili conflitti familiari.
Ma possiamo evidenziare un aspetto ancor più profondo che ci fa riflettere sull’aspetto relazionale del cibo. Ci riferiamo alla prima relazione che ognuno di noi stabilisce dal momento della nascita, ovvero la relazione con la propria madre, o con chi si prende cura del neonato. La prima relazione affettiva della nostra vita è, quindi, sempre mediata dal cibo e gran parte della vita emotiva del neonato e del bambino ruota attorno a questo. In particolare, piacere, dispiacere, rabbia, sin dalla nascita vengono collegati all’alimentazione, aspetto che si ripercuoterà anche nelle relazioni della vita dell’adulto. Infatti, se da piccoli iniziamo ad associare l’essere nutriti con sensazioni di benessere – legate al piacere del cibo e al piacere di sentirsi amati ed accuditi – da adulti si continuerà a mettere in atto tale meccanismo, spesso in modo inconsapevole, associando sempre più spesso il nutrimento del cibo con l’appagamento di tipo emotivo.
Da ciò consegue che la nostra relazione con il cibo può essere influenzata dal nostro umore. Questo significa che a volte non si mangia per una reale necessità di nutrire il nostro organismo, ma per concedere a noi stessi una ricompensa, ad esempio in seguito ad un evento stressante. In ciò non c’è nulla di allarmante. Ma il problema sopraggiunge quando il binomio cibo-ricompensa tende ad instaurarsi in maniera rigida nella nostra mente e nel nostro corpo: può accadere, ad esempio, che si mangi in eccesso per evitare di sentire un’emozione negativa, che si mangi perché si è annoiati o perché si è arrabbiati o ansiosi o molto tristi. Questa modalità di relazionarsi con le emozioni spiacevoli, con il tempo, può assumere una connotazione distruttiva in quanto, se mantenuta, fa sì che l’individuo diventi sempre meno capace di accettare le proprie emozioni negative e, quindi, di riconoscerle e di comprenderle. Stando così le cose, si continua a mangiare per anestetizzare i propri vissuti emotivi, con la conseguenza che i problemi che li causano (insieme al peso corporeo) rischiano di aumentare.
Che cosa fare a questo punto? Se da soli si fa fatica ad interrompere questo circolo vizioso, uno psicoterapeuta può fare la differenza. Ovviamente un terapeuta non prescrive nessuna dieta – per questo c’è il dietologo – ma può aiutare ad affrontare alcuni problemi legati al perché la persona non riesca a controllare il proprio bisogno di cibo. Infatti, se la nostra vita è poco gratificante ed una delle maggiori gratificazioni deriva dal cibo, come potremmo mai trovare la motivazione per intraprendere un diverso e più sano stile alimentare?
(in collaborazione con la dottoressa Sara Reginella)