Come comunicare con i propri bambini? Diamo per scontato che capiscano il nostro linguaggio, ma è così? E noi comprendiamo il loro?

La prima riflessione da fare è che, fin dall’inizio, una comunicazione non è solo un passaggio di informazioni, ma soprattutto di affetti.

Il primo strumento a disposizione di un bambino è il pianto: attraverso il pianto il neonato comunica bisogni e disagi e la risposta che riceve dà il via alla relazione. Quando il bambino inizia a parlare lo scambio comunicativo diventa più ricco, ma bisogna tener conto delle fisiologiche fasi evolutive. È molto importante tenere conto di quello che il bambino sa e può fare, come è molto importante dare una risposta adeguata da parte dei genitori o delle figure di accudimento.

E, a tal proposito, non dimentichiamo i papà. Specialmente nei primi momenti di vita del neonato, la madre è di solito più coinvolta, anche perché la gravidanza ed il parto l’hanno già messa in relazione col piccolo. Tuttavia, mamma è papà hanno ruoli complementari ed entrambi indispensabili, sia per il bambino, sia per un reciproco supporto.

Un altro aspetto fondamentale quando parliamo ai nostri bambini è la comunicazione non verbale: a volte trascuriamo il fatto che, oltre a ciò che diciamo a parole, comunichiamo con lo sguardo, con il tono della voce, con l’espressione del volto, con la posizione del corpo. Ciò è universalmente vero, certamente ciascuno di noi ne ha avuto esperienza, e lo è anche e soprattutto con i piccoli. Di solito gli indizi del corpo sono ‘in linea’ con quello che diciamo, talvolta però capita che la nostra comunicazione non verbale non si adatti, cioè sia incongrua, al contenuto di ciò che stiamo dicendo.

Il linguaggio non verbale è meno soggetto al nostro controllo volontario, pertanto, anche quando non abbiamo intenzione di mostrare il nostro stato d’animo, il non verbale potrebbe tradirci. Questo assume particolare importanza quando abbiamo a che fare con le emozioni negative. Molto spesso noi grandi siamo spaventati dalle emozioni negative, così evitiamo di esprimerle esplicitamente. È, invece, molto importante riconoscere ed accogliere le proprie emozioni, anche quelle negative, ed imparare a dar loro il giusto nome. Poterlo dire, non solo non è spaventoso come noi potremmo credere, ma ci mette al riparo da un messaggio pericolosamente incongruo.

Quando dobbiamo comunicare un’emozione negativa l’importante è contestualizzarla e non generalizzarla. Altrettanto fondamentale è non confondere l’azione del momento che ha suscitato l’emozione negativa con un tratto stabile ed irreversibili, ad esempio: “Mamma è arrabbiata perché ti sei comportato male” e non “Mamma è arrabbiata perché sei cattivo!”.

Questo tipo di contestualizzazione è molto significativa anche in ambito scolastico, ad esempio: “Non hai svolto bene il compito”, piuttosto che “Non sei capace”.

Queste considerazioni metteranno al riparo grandi e piccini da spiacevoli e silenziose incomprensioni: dicendo ai piccoli – pur nella forma più adeguata al loro linguaggio – la verità, mostreremo loro di potersi fidare di noi.